POPULISTI E POPOLARI un cortocircuito tra banca e famiglia

Articolo di Roberta Carlini per il n. 1 ROCCA 1 gennaio 2020



  • Un presidente di una banca rimasto in carica per 41 anni (quarantuno, l’arco di tempo nel quale uno cresce, esce di casa, trova lavoro e famiglia), con i suoi due figli agli alti comandi vicino a lui. Un vicepresidente di un’altra banca che è anche il papà di una ministra il cui governo si deve occupare di salvare o non salvare la banca stessa. Un rappresentante dei consumatori e di un partito politico che si candida a presiedere l’indagine parlamentare sulle banche, e ha un figlio che lavora nell’ultima che è saltata. La famiglia è un tratto comune delle vicende bancarie italiane, che periodicamente si riaffacciano togliendo il sonno ai risparmiatori e inguaiando governo e autorità di vigilanza. Mentre per i casi più grandi, quelli che si sono affacciati all’inizio della crisi finanziaria dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna all’Europa, si è usata l’espressione «too big to fail», troppo grandi per fallire, i casi che, dalle banche del centro Italia a quelle del Veneto sino a Carige e alla Popolare di Bari, hanno interessato l’Italia, con la sola eccezione del Montepaschi non riguardano grandi colossi. Non sarà che dobbiamo cambiare l’espressione, e dire che sono «troppo familiari» per fallire? Ossia troppo intrecciate con il nucleo più stretto, intimo, della nostra società e con quel carattere – appunto – familistico della nostra economia e della nostra politica, il cui «fallimento» è conclamato ma ciononostante non può essere ammesso?
La vicenda della Popolare di Bari, il cui dissesto era noto agli addetti ai lavori ma è stato rivelato, con il commissariamento, solo nel dicembre del 2019, parla dell’Italia assai più di un rapporto Censis. Ma rivela anche le difficoltà, per usare un eufemismo, di una parte politica che, nata all’insegna della lotta alla casta, si trova a dover gestire «cose di casta» dalla stanza dei bottoni, e le contraddizioni di un messaggio all’apparenza semplice, come quello di «salvare i risparmiatori ma non i banchieri», che invece alla sua traduzione in politiche diventa maledettamente complicato.
Bari, Italia
Per cominciare, va ricordato che il caso della Popolare di Bari non è il primo e forse non sarà l’ultimo. La banca del capoluogo pugliese è la dodicesima a saltare, dal 2015. Le sue difficoltà, come quelle delle altre, sono dovute sia alla crisi economica che alla cattiva gestione, caratterizzata da tutti i mali che vengono da quello che inizialmente doveva essere un bene: il radicamento nel territorio, e dunque lo stretto contatto con una struttura aziendale spesso asfittica e con i potentati politici locali. La riforma delle banche popolari, che doveva rendere più trasparente la gestione e aprire anche a un ricambio del management, è stata evitata e aggirata. Come già hanno fatto nel passato le altre salite agli onori della cronaca, ha cercato di nascondere le sue difficoltà finanziarie ricorrendo ad aumenti di capitale che sono stati finanziati dai suoi correntisti, risparmiatori diventati azionisti o in possesso delle cosiddette «obbligazioni subordinate». L’analfabetismo finanziario che, dicono le statistiche, caratterizza i risparmiatori italiani, unito anche a una certa dose di azzardo (magari non tutti, ma molti potevano essere in grado di intuire che dietro la promessa di rendimenti più alti di quelli del mercato c’era un rischio) e a pratiche scorrette, per cui gli impiegati di fatto «costringevano» i risparmiatori a sottoscrivere quelle obbligazioni, hanno fatto il resto. Così anche stavolta le autorità e il governo hanno fatto di tutto per evitare che scattasse la regola europea del «bail in», che per l’appunto era diretta a far pagare gli azionisti invece di salvarli a spese dei bilanci pubblici. Va detto che lo stesso è successo anche in altri Paesi, persino nella virtuosa Germania. Sta di fatto che per evitare il fallimento della Popolare di Bari si è trovato in fretta e furia un miliardo, proprio negli stessi giorni in cui il parlamento era intento a litigare sulle briciole (qualche milione di qua, qualche milione di là) nella sessione di bilancio per il 2020.
Questo vuol dire che si doveva lasciar fallire la Popolare di Bari? No. C’è chi dice che il fallimento di una banca, sia pure di medie dimensioni («eroga il 10% del credito in regioni che contano per il 7% dell’economia italiana», come ha scritto Stefano Lepri su la Stampa; ma «con le sue oltre 350 filiali, 9 miliardi di raccolta, 14 di attivo e 3.300 dipendenti, è il primo gruppo creditizio autonomo del Mezzogiorno. Ha quasi 70 mila soci ed è la più grande popolare rimasta in Italia, dopo quella di Sondrio», ha scritto l’economista Rony Hamaui su lavoce.info), può innescare una reazione a catena e una crisi di fiducia pericolose, tanto più in una regione, come la Puglia, già segnata da crisi economiche gravi, come quella dell’Ilva. Ma se si deve intervenire, sarebbe meglio farlo con trasparenza, nei tempi giusti (e invece si è aspettato molto), ed evitando di procedere per slogan.
Dentro e contro
Esattamente il contrario di quel che hanno fatto le classi dirigenti al governo. Tra i quali quel Movimento Cinque Stelle che sul salvataggio dell’Etruria aveva sparato a palle incatenate, e che è continuamente oscillante tra la linea rigorista e quella dei salvataggi. Nell’incertezza, viene sempre comodo prendersela con un solo responsabile, additando in questo caso la Banca d’Italia, che doveva vigilare. Il comportamento di via nazionale può essere sindacato e criticato – nessuno in democrazia dovrebbe essere immune da critiche e tutti dovrebbero essere chiamati a render conto del proprio operato –, ma appare scorretto invocare più rigore quando poi, ogni volta che questo rigore viene esercitato, si protesta e si combatte. E soprattutto, quando non si è fatto niente per anni per rompere quell’intreccio e conflitto di interessi che caratterizza il credito locale, che dovrebbe essere il più vicino agli interessi e alle aspettative dei risparmiatori e degli imprenditori.
Per parafrasare il titolo di un libro con il quale Marco Revelli etichettava il fenomeno Renzi agli albori, è come se lo sport nazionale dei politici fosse diventato quello di essere «dentro e contro»: dentro le stanze dove si decide, ma fuori a urlare contro le decisioni che sono sempre colpa di qualcun altro.
E invece proprio le vicende bancarie ci dicono che non è sempre «colpa» di qualcun altro. Che la società civile, celebrata come antidoto alle malefatte della casta, spesso convive bene con quelle malefatte, anzi ne è parte. Dov'era la società civile meridionale e nazionale mentre un ras locale, da Vicenza a Bari, incontrastato regnava sul credito locale, facendo il bello e (soprattutto) il cattivo tempo? E chi sono «i banchieri» colpevoli, nel caso delle popolari? Gli azionisti, i management, gli imprenditori foraggiati anche senza merito né corretta valutazione del rischio? Adesso ci penserà la Banca del mezzogiorno, uno strumento inventato a suo tempo da Giulio Tremonti e finora scarsamente utilizzato. Le mani della politica nazionale invece che quelle della politica locale. Per chi non ha pregiudizi ideologici, potrebbe anche funzionare: in fondo, si dice, se il mercato ha fallito è giusto che lo Stato intervenga. Se non fosse che, nel caso delle Popolari, non ha fallito «il mercato» ma quella sua particolare versione intrecciata a politica e corruzione che non è prerogativa solo delle piccole e medie popolari ma di larga parte del capitalismo italiano: la zona grigia in cui continua l’agonia dell’Alitalia, prosperano, o prosperavano, i signori delle concessioni pubbliche come autostrade e aeroporti, e così via. Di fronte a questa realtà, l’unico intervento statale in grado di riportare fiducia potrebbe essere quello che mette fine alle zone grigie e chiama anche imprese e famiglie, almeno per il futuro, a riflettere sulle proprie responsabilità.  

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