Ricchezze estreme e democrazia: una difficile coesistenza

Maurizio Franzini affronta il tema delle disuguaglianze trattando il tema della compatibilità con la democrazia di concentrazioni estreme della ricchezza.


articolo di Maurizio Franzini  per pandoraonline

Solo ora mi sono accorto che alla pagina pandora+ possono accedere solo gli abbonati. L'articolo è così interessante che l'ho copiato integralmente. Non credo che Pandora se ne avrà a male.

«Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la demo crazia oppure possiamo avere la ricchezza concentrata in poche mani. Ma non possiamo avere queste due cose assieme».
A pronunciare queste parole fu Louis Brandeis, un uomo per molti versi straordinario. Nel 1916 – primo ebreo nella storia degli Stati Uniti – egli fu nominato giudice della Corte Suprema dal presidente Wilson. Lo precedeva una fama di giurista rigoroso, inflessibile e radicale. E la sua esperienza, nella Corte e non solo, fu all’altezza di questa fama. A lui nel 1948 è stata intitolata una Università, nei sobborghi di Boston. Per rintracciare le origini della visione piuttosto radicale di Brandeis occorre considerare che egli conosceva benissimo il mondo dei monopoli e aveva avuto modo di riflettere sulle conseguenze del loro rafforzamento in atto ormai da alcuni decenni, soprattutto nel settore petrolifero. Brandeis aveva chiare anche le condizioni da cui dipende il buon funzionamento della democrazia – incluse nella Costituzione americana – e temeva che la concentrazione dei redditi e della ricchezza potesse minare quelle condizioni.
È interessante osservare che un altro uomo straordinario, anche lui ispirandosi profondamente alla Costituzione americana, condivise questa preoccupazione e operò perché essa restasse solo una preoccupazione. Eravamo nel pieno dei drammatici anni Trenta quando Franklin Delano Roosevelt affermò che «non può darsi eguaglianza politica senza eguaglianza economica». E il suo New Deal può essere utilmente interpretato non tanto come un insieme di politiche dirette a rilanciare la depressa economia quanto, piuttosto, come una serie di riforme radicali dirette a rendere le regole di funzionamento dell’economia maggiormente compatibili con i principi costituzionali dell’eguaglianza (economica e politica). Possiamo chiederci, a distanza di molti decenni, dove sia finita la preoccupazione di Brandeis e di Roosevelt. Svanita per imperdonabili errori? Accantonata per manifesta infondatezza? Non vi è dubbio che da alcuni decenni la preoccupazione che la concentrazione della ricchezza possa mettere in pericolo la democrazia sembra essere uscita dall’orizzonte delle forze politiche che più facilmente avrebbero potuto nutrirla, considerando la storica importanza da esse attribuita alle disuguaglianze. Mi riferisco, naturalmente, alle forze politiche di sinistra.
Ricordo qualche tappa di questo processo di ‘emancipazione’ dalla preoccupazione di Brandeis. Nel 1964 il presidente americano Lyndon Johnson avviò la sua ‘guerra alla povertà’ che di certo aveva ottimi motivi per essere avviata. Il punto, però, è che con quella guerra iniziò a farsi largo l’idea (ben coltivata) che solo la povertà fosse un problema, non anche la ricchezza estrema. Ciò può essere dovuto al fatto che in quegli anni le ricchezze (intese sia come patrimoni sia come redditi) non erano così concentrate come sarebbero state da lì a poco. Ma il punto è che iniziò a prendere consistenza, appunto, l’idea che solo la povertà fosse il problema. Naturalmente la povertà è un problema per i poveri mentre la ricchezza non è un problema per i ricchi. Entrambe, però, possono essere un problema per una società avanzata e per una democrazia ben funzionante. Quell’idea ricevette a sinistra una spinta al suo rafforzamento quando il socialdemocratico svedese Olof Palme, nei primi anni Ottanta, affermò esplicitamente che non bisognava combattere la ricchezza ma la povertà. E l’uso del termine combattere convogliava una sensazione di ‘inimicizia’ probabilmente eccessiva. Sarebbe forse stato meglio darsi l’obiettivo di combattere la povertà e di contenere la ricchezza.
L’emancipazione della sinistra dalla preoccupazione per le ricchezze eccessive trova forse la sua definitiva consacrazione in quanto ebbe dire, nel corso della campagna elettorale del 2001, il primo ministro laburista Tony Blair: «La giustizia per me è soprattutto far crescere il reddito di coloro che non hanno un reddito decente. Non è una mia sfrenata ambizione fare in modo che David Beckham guadagni meno». E nel 2007 al Lingotto di Torino, nel discorso con cui si candidò alla segreteria del Partito Democratico, Veltroni non si distanziò molto da questa linea. Non a caso egli riprese letteralmente la frase di Palme. È bene sottolineare che molto probabilmente, per non dire sicuramente, Palme, Blair e Veltroni ritenevano che proporsi di combattere soltanto le povertà non equivalesse in alcun modo a proporsi di tollerare (o addirittura suscitare) le disuguaglianze. Forse la loro fiducia nella possibilità di ridurre le disuguaglianze senza preoccuparsi delle ricchezze derivava dall’adesione all’idea che queste ultime ‘sgocciolando’ potessero portare benefici a tutti, anche ai poveri. È, questa, l’idea del trickle down; un’idea priva di basi teoriche e orfana di conferme empiriche. D’altro canto, è probabile che la riluttanza a contenere le ricchezze nascesse dalla convinzione che esse fossero meritate, perché determinate da un mercato nel quale si affermavano ‘i migliori’, qualunque sia l’accezione di questo termine. Ma è difficile condividere questa idea quando i mercati sono protetti dalla concorrenza, quando la commistione tra potere economico e potere politico è forte, quando le origini familiari svolgono un ruolo decisivo. E non si può escludere che al di sopra di tutto questo vi fosse l’obiettivo di ingraziarsi i ricchi, di liberarsi dall’idea che a sinistra si odiano i ricchi. Ma così facendo si è persa la possibilità di distinguere – se è consentito esprimersi così – le ricchezze ‘buone’ da quelle ‘cattive’. Perché non va dimenticato che se vi fosse solo il merito alla base della ricchezza, quest’ultima sarebbe ben giustificata e, d’altro canto, sarebbe facile accusare chi la critica di essere vittima dell’invidia. Questo è quanto accade normalmente. Si tende così a escludere che quelle critiche possano nascere dall’indignazione per il modo in cui la ricchezza si forma o dalla preoccupazione per le conseguenze che essa può determinare.
È utile ricordare che mentre a sinistra si consolidavano queste convinzioni, anche per iniziativa di forze politiche di quello schieramento a livello nazionale e sovranazionale venivano prese decisioni che rivoluzionavano il funzionamento dei sistemi economici; decisioni che difficilmente sarebbero state prese se nei confronti delle ricchezze, in particolare di quelle eccessive, si fosse avuto un atteggiamento appena un po’ più problematico: a partire dagli anni Ottanta le politiche antimonopolistiche persero mordente, i capitali ricevettero l’autorizzazione a muoversi liberamente oltre i confini nazionali, le imposte sui redditi più alti vennero drasticamente ridotte e molto altro di assimilabile accadde. Si usa etichettare questo periodo come quello di affermazione del neo-liberismo. Considerando la tolleranza nei confronti dei monopoli e la tendenza dei debiti pubblici a crescere si può ritenere che quell’espressione sia poco rappresentativa dei reali fenomeni in atto. Per denotare questi ultimi sarebbe forse meglio parlare di affermazione del capitalismo clientelare, o crony capitalism, cioè di un sistema nel quale è decisiva la vicinanza tra potere economico e potere politico. Molto opportunamente, qualche tempo fa, «The Economist» ha sostenuto la tesi che con la caduta del muro di Berlino si è verificata la vittoria non del capitalismo ma del crony capitalism sul socialismo. Inoltre, sarebbe meglio parlare di sistema tendenzialmente oligarchico. Perché tale appare un sistema nel quale un ristretto segmento della società possiede ricchezze e percepisce redditi enormemente più elevati di tutti gli altri e, particolare tutt’altro che trascurabile, trasmette questo privilegio ai propri discendenti. Una società con forti disuguaglianze al top e pochissima mobilità sociale tra le generazioni ha tutti i requisiti per candidarsi al titolo di società oligarchica.
Adottando questa prospettiva diventa più facile cogliere il preoccupante legame tra concentrazione dei redditi e della ricchezza, da un lato, e cattivo funzionamento della democrazia, dall’altro. Non occorre precisare cosa si intenda esattamente con il termine democrazia per sostenere che le ricchezze eccessive possono snaturare la sua intima essenza. Le vie attraverso le quali tutto ciò può accadere sono molteplici. La più ovvia e citata di esse si riferisce all’influenza sulle competizioni elettorali attraverso il finanziamento dei partiti e dei candidati preferiti. Più in generale la democrazia è minata da quella che è stata chiamata l’unequal voice dei diversi segmenti della società. Una voce diseguale che raggiunge vette straordinarie di sonorità, almeno nelle orecchie di chi deve decidere, quando proviene dai più ricchi. Dunque, la democrazia soffre non soltanto in occasione delle competizioni elettorali, ma anche nei quotidiani processi di decisione politica, molto spesso distorti dalla diseguale sonorità della ‘voce’. Con le tecnologie digitali e, in particolare, con l’espandersi delle grandi piattaforme queste tendenze rischiano di aggravarsi, per il sommarsi di due fenomeni: la facilità con cui si possono realizzare straordinari e rapidi arricchimenti; la possibilità di disporre, in modo gratuito, di una massa enorme di dati che consentono di condizionare le informazioni, le convinzioni e la stessa visione del mondo di milioni e milioni di persone. Non si tratta, dunque, soltanto del problema della violazione della privacy; il problema – decisamente più grave – è quello delle ricadute dirette e indirette che l’utilizzo gratuito dei dati, attraverso le piattaforme, può avere sul funzionamento della democrazia.
Di fronte a questo stato di cose non sorprende che negli ultimi tempi si sia iniziato a porre, con una certa insistenza e sistematicità, la questione delle ricchezze eccessive. Segnali ben visibili in tal senso vengono, proprio di recente, dagli Stati Uniti. E, considerando la concentrazione dei redditi e delle ricchezze che caratterizzano questo Paese, non vi è molto da sorprendersi. Per alcuni esponenti del Partito Democratico (tra cui Elizabeth Warren, candidata alla Presidenza degli Stati Uniti, e Alexandria Ocasio-Cortez) il tema della tassazione dei ricchi occupa una posizione di primo piano e le proposte di cui si discute sono di diversa natura: tassare con aliquote molto più alte di quelle correnti i redditi più elevati (Ocasio-Cortez) oppure introdurre una tassazione sui grandi patrimoni con aliquote basse e moderatamente diversificate a seconda della grandezza di quei patrimoni (Warren). Si parla anche di rivedere radicalmente le politiche antitrust in modo da limitare l’enorme potere di mercato di cui godono alcuni giganti e che consente loro di condizionare il mercato dei beni, quello del lavoro e, come tendenza, anche quello del credito. Le preoccupazioni per la democrazia hanno spinto anche un autorevole giurista, John McCormick, a proporre che nel Congresso entrino 51 ‘tribuni del popolo’ sorteggiati tra coloro che non fanno parte del 10% più ricco della popolazione. Una proposta singolare, che però dà adeguatamente conto della fiducia che alcuni ripongono nella democrazia rappresentativa in un’epoca di grandi disuguaglianze.
Ciascuna di queste proposte può, naturalmente, essere criticata ed è bene che lo sia. Ma le critiche dovrebbero essere formulate tenendo conto dei rischi che si corrono non facendo nulla. L’affermazione di Brandeis, colpevolmente accantonata, deve essere presa molto seriamente e occorre convincersi che, contrariamente a quanto la sinistra ha mostrato di credere, la democrazia e il progresso richiedono non soltanto di combattere le povertà ma anche di contenere le ricchezze. Specialmente quelle immeritate, che quasi sempre sono parte dominante di quelle più estreme.


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