Il Covid-19 e la nuova crisi che verrà
Ho letto questo articolo da "La Città futura" del 18 aprile 2020 che mi è sembrato molto interessante e stimolante da condividere con il gruppo per continuare a riflettere e ragionare sulle conseguenze e gli effetti economici e sociali che questa epidemia di Covid 19, produrrà in special modo nei confronti delle classi meno abbienti.
Capire se lo Stato può essere e diventare espressione degli interessi di una classe o dell'altra, o essere, invece, espressione degli interessi di tutte le classi.
Come uscire fuori dalla crisi della Sinistra, tornando ad essere protagonista della scena facendo si che lo Stato, e nello specifico il mercato, possa agire in modo "solidale" (evitando di privatizzare i profitti e socializzare le perdite).
Capire se lo Stato può essere e diventare espressione degli interessi di una classe o dell'altra, o essere, invece, espressione degli interessi di tutte le classi.
Come uscire fuori dalla crisi della Sinistra, tornando ad essere protagonista della scena facendo si che lo Stato, e nello specifico il mercato, possa agire in modo "solidale" (evitando di privatizzare i profitti e socializzare le perdite).
Il Covid-19 e la
nuova crisi che verrà
Per far fronte alla crisi lo stato dovrà
intervenire massicciamente. Ma non aspettiamoci che lo faccia nell’interesse
dei lavoratori. L’alternativa è superare il capitalismo.
18/04/2020
Dopo alcune settimane dallo scoppiodell’epidemia di Covid-19 in Occidente è già molto diffusa la consapevolezza che questa crisi produrrà enormi effetti economici e sociali.
“L'economia mondiale non ha mai visto niente di simile. Quasi tutte le previsioni economiche per il 2020 parlano di una contrazione del PIL globale del 3-5%, peggiore quanto, se non di più, di quella della Grande Recessione del 2008-9.
Secondo l'OCSE, nella maggior parte delle economie la produzione diminuirà in media del 25%, mentre intanto i “lockdown” vanno avanti e interesseranno direttamente una quota di settori che rappresentano fino a un terzo del PIL delle principali economie. Per ogni mese di contenimento è prevista una perdita di 2 punti percentuali nella crescita del PIL annuale”[1].
In una situazione di questo tipo (ma in verità potremmo dire in ogni situazione) anche solo pensare di lasciare al mercato il compito di trovare autonomamente un equilibrio “efficiente” e “equo” è pura follia. Le conseguenze del virus costituiscono, per usare il linguaggio degli economisti, un’esternalità negativa talmente macroscopica da rendere indispensabile un massiccio intervento dello Stato. Non c’è neo-liberista che non lo capisca.
Ma ecco che non appena lo Stato sembra tornare protagonista assoluto della scena, scatta il classico sillogismo
della sinistra: se il mercato è il Male e lo Stato deve sostituire il mercato, allora lo Stato, se non è propriamente il
Bene, è quanto meno un bene. Il dubbio che Stato e mercato possano agire in modo “solidale” (diciamo,
per privatizzare i profitti e socializzare le perdite [2]) non sfiora la mente di tante e tanti che infatti hanno
immediatamente ricominciato a recitare il de profundis del cosiddetto neo-liberismo (il quale dev’essere peraltro
duro a morire giacché era già stato dichiarato defunto all’indomani del crack di Wall Street del 2007-2008 e dei
relativi salvataggi di Stato).
Che lo Stato fosse stato il padre del cosiddetto “libero mercato” lo hanno raccontato Karl Polanyi [3] e Karl Marx
[4]; mentre Adam Smith, da buon filosofo morale, ebbe a riconoscere che il mercato produce la polarizzazione
della ricchezza e dunque la necessità “morale” – nel senso della morale borghese – del suo riequilibrio.
“Ben lontano dal teorizzare un mercato autoregolantesi che funzionerebbe al meglio con un apparato statale
residuale o inesistente, nella Ricchezza delle nazioni, così come nella Teoria dei Sentimenti morali o nelle
inedite Lezioni sulla giurisprudenza, Smith propone l’esistenza di uno stato forte, capace di creare e riprodurre le
condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di
governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o
politicamente negative” [5].
Smith, ad esempio, proponeva di
“‘provvedere lo stato […] di risorse sufficienti a fornire i servizi di pubblica utilità’ e ‘garantire alla popolazione
un alto tenore di vita’”[6].
Dunque, non è mai stato ignoto che il libero mercato arricchisce pochi, impoverisce molti e ha bisogno dell’aiuto
dello Stato per non fallire e per riprodurre la sua logica. Perché allora, dal nuovo protagonismo politico ed
economico dello Stato derivante dalla pandemia di Covid-19, gli anti-neo-liberisti deducono la morte del neoliberismo?
Forse perché pensano che neo-liberismo e Stato siano antitetici. Ma se lo pensano, pensano male.
“il neo-liberismo non sostiene più, infatti, che le spese statali debbano essere limitate ai soli settori della difesa,
della giustizia e dell'ordine pubblico ma, in contrapposizione dialettica con i fautori del Welfare State, ritiene che
lo Stato debba intervenire solo nei casi di evidente fallimento del mercato” [7].
Non tragga in inganno il “solo”. Nella teoria economica il concetto di “fallimento del mercato” è collegato
(inversamente) con quello assolutamente teorico e irrealisticodi “concorrenzialità perfetta” [8] e, per il semplice
motivo che il concetto di concorrenza perfetta è una costruzione teorica a cui non risponde nessuna effettualità [9],
è facile dedurre che il mercato non può mai non fallire e dunque che lo Stato non può mai non intervenire.
L’ultimo grande crack del 2007-2008 ha mostrato chiaramente che, quando le grandi banche stanno per ricevere
l’estrema unzione, lo Stato interviene per riportarle in vita spingendo i banchieri a livelli sempre più alti
di azzardo morale: d’altra parte, se so che alla fine sarò comunque salvato, non c’è limite al rischio che posso
prendermi, dato che in effetti non è un vero rischio. Infatti, dopo la grande paura del 2007-2008, tutto è tornato
sostanzialmente come prima perché l’unica variabile che avrebbe potuto fare la differenza – la rabbia popolare – è
rimasta confinata soprattutto in movimenti come Occupy Wall Street o nelle campagne elettorali per la
candidatura di Bernie Sanders senza riuscire a produrre, al momento, il necessario salto di
qualità politico e organizzativo (banalmente, la completa “autonomizzazione” dal Partito Democratico).
Gli anti-neo-liberisti sembrano convinti che Stato e mercato, nel capitalismo, non possano essere come i famosi
“ladri di Pisa”, che litigavano di giorno e rubavano insieme di notte; dichiarano che la nuova morte del neoliberismo
apre la strada al ritorno di un “capitalismo dal volto umano” che redistribuirà ricchezza come ai “bei
vecchi tempi” (e anche qualcosa in più): reddito di cittadinanza ricco, universale e incondizionato, pensioni e
salari minimi (ma non sono già abbastanza al minimo?) e giusti (rispetto a chi e a cosa?), sanità d’avanguardia,
casa e scuola gratis, piena occupazione…
I soldi? Semplice, prendiamoli ai ricchi (diavolo, averlo saputo prima…!). Oppure, ancora più semplice,
adottiamo la “soluzione universale” [10]: usciamo dall’area-Euro, stampiamo moneta italica (nuova o vecchia, a
seconda che si adotti la Lira o la Libera [11]), svalutiamo, esportiamo, incassiamo, spendiamo e… godiamo! In
fondo il capitalismo potrebbe non essere il peggiore dei mondi possibili.
Ma ci sono anche gli inguaribili ottimisti che si spingono a prevedere l’inevitabile ritorno di fiamma del
comunismo in quanto, a forza di stare chiusi in casa, riscopriremo certamente che siamo zoon politikon e dunque
abbiamo bisogno di stare insieme agli altri (come se andare allo stadio o a fare shopping al Megastore o pigiarsi in
discoteca o prendere l’ostia in chiesa... non fosse anch’esso “stare insieme”).
Ora, è certamente vero che la speranza fa bene allo spirito; ma la speranza fa bene anche al corpo – ovvero alla
nostra capacità di iniziativa politica – solo se, “blochianamente”, rappresenta una proiezione realistica del
presente, altrimenti tanto vale sperare nella Provvidenza.
Il fatto è che lo Stato può essere espressione degli interessi di una classe o di un’altra, ma non può essere
espressione degli interessi di tutte le classi; almeno, se siamo consapevoli che gli interessi delle diverse classi
sono, appunto, diversi. Dunque non basta auspicare l’intervento dello Stato, ma bisogna domandarsi qual è il tipo
di Stato che abbiamo di fronte e se esso possa (o meno) essere indotto ad operare concretamente a favore dei
lavoratori.
Oggi tutte le varianti della sinistra “ragionevole” si dicono più o meno orgogliosamente “keynesiane” (oppure lo
sono di fatto senza saperlo). Perché? Intanto, banalmente, perché non essendo marxiste fraintendono il ruolo
dello Statoche non è quello di proteggere la condizione sociale dei dominati ma, tutto al contrario, quello di
garantire i più alti tassi di profitto dei dominanti.
Inoltre, non avendo più fiducia in un cambiamento rivoluzionario – cosa peraltro comprensibilissima data l’attuale
fase storica – gli anti-neo-liberisti si mettono a dare consigli alla classe dominante su come uscire dalle sue crisi
[12]facendo al contempo il bene della povera gente. E questo è un po’ meno comprensibile.
E in cosa consistono questi consigli? Semplice: i ricchi diano soldi ai poveri così i poveri potranno comprare le
merci prodotte dalle imprese dei ricchi e questo rilancerà i consumi interni, l’economia, la crescita, la ricchezza, il
benessere, la felicità.
Ma se il “keynesismo” diventa il semplice sostegno statale alla domanda effettiva allora si può fare in molti
modi: dare denaro ai poveri per aumentare il consumo di beni di prima necessità è solo uno dei tanti, di certo
quello meno praticato (e, quando praticato, praticato obtorto collo). Ma il “keynesismo” si può fare anche (e così
soprattutto si è fatto e si farà) fornendo denaro alle imprese “per investire” e fare profitti, dietro la promessa –
spesso non mantenuta – della creazione di posti di lavoro di cui tutta la società potrebbe poi beneficiare. Persino
la costruzione di F35 o della TAV sono esempi di keynesismo, così come lo erano gli investimenti
nell’industria bellica al tempo del New Deal. Per non parlare del keynesismo finanziario del buon Mario Draghi
che ha elargito, tramite il cosiddetto “quantitative easing” (QE), migliaia di miliardi di euro al sistema europeo
delle banche
“La BCE ha speso 2,6 trilioni di euro (3 trilioni di dollari) in quasi quattro anni, acquistando principalmente debito
pubblico, ma di impresa (corporate), titoli garantiti da attività (asset-backed securities) e obbligazioni garantite
(covered bonds) – a un ritmo di 1,3 milioni di euro al minuto. Ciò equivale a circa 7.600 euro per ogni persona
che appartiene al sistema valutario (dell’euro)” [13].
Ecco, potevano dare 7.600 euro ad ogni persona dell’area-Euro e invece hanno riempito le casse ai
capitalisti, ai banchieri e agli Stati. Come mai? Beh, è molto semplice, perché hanno il potere e fanno quello
che vogliono. Insultare Draghi o la Lagarde sui social può essere divertente, ma non cambia granché la situazione.
Come è successo nelle crisi passate, così succederà nella grande crisi che sta per arrivare con la pandemia. Molte
persone di sinistra, sinceramente indignate, diranno che “la crisi la devono pagare quelli che l’hanno provocata!” e
chiederanno allo Stato di agire attraverso l’imposizione fiscale per spostare un po’ ricchezza dal lato del capitale
verso quello del lavoro.
Sarebbe giusto fare come Robin Hood, prendere ai ricchi per dare ai poveri? Certo. Produrrebbe una maggiore
equità sociale? Nell’immediato, forse, in certa misura, chissà. Permetterebbe al sistema di fuoriuscire dalla crisi?
No. Lo faranno? Lo Stato sarà come Robin Hood? Forse, ma solo con la canna del fucile puntata alla testa.
Se qualcuno ha il fucile si faccia avanti.
Ovviamente quella del “fucile” è solo una metafora (con la quarantena le armerie sono chiuse) per dire che lo
Stato non può essere “convinto”, ma solo “costretto” ad attuare politiche a favore dei lavoratori e che
questo può avvenire solo quando i lavoratori hanno un’elevata forza “associativa” e “strutturale” (come le
chiamerebbe Erik Olin Wright)
“In questo articolo, la nostra attenzione si concentra soprattutto su ciò che definisco potere associativo della classe
operaia – le varie forme di potere che derivano dalla formazione di organizzazioni collettive dei lavoratori. Ciò
che include sindacati e partiti, ma anche una varietà di altre forme, come consigli di fabbrica, forme di
rappresentanza istituzionale dei lavoratori nei consigli di amministrazione dentro situazioni di compartecipazione
o anche, in talune circostanze, organizzazioni comunitarie. Il potere associativo può essere messo a confronto con
quello che può essere definito come potere strutturale della classe operaia – ovvero il potere che deriva dalla
semplice collocazione dei lavoratori all’interno del sistema economico. Il potere che deriva direttamente dalla
rigidità del mercato del lavoro o dalla posizione strategica di un determinato gruppo di lavoratori all’interno di un
settore industriale strategico costituiscono esempi di potere strutturale” [14].
Nella crisi che verrà, probabilmente, la forza “strutturale” dei lavoratori diminuirà, come spesso è avvenuto
nelle crisi, quando aumenta la disoccupazione e diminuiscono i salari. In generale le lotte non pagheranno, per
così dire. E anche la forza “associativa” dei lavoratori (la partecipazione a partiti di massa, sindacati, movimenti
sociali) è destinata diminuire dal momento che la credibilità di politiche “riformiste” e di miglioramento sociale
declinerà ulteriormente con l’ulteriore declino dei margini per la loro effettiva realizzazione. Quando le lotte
vincono si diffonde la fiducia, ma quando non vincono si diffondono la sfiducia e il senso di impotenza.
Senza contare la retorica che ci chiederà “unità nazionale” e “coesione sociale” “per la ricostruzione”. Il
“linguaggio da tempo di guerra” di oggi prepara il terreno al “discorso da dopoguerra” di domani.
Detto questo, per le forze che si propongono un cambiamento radicale dell’intera società quella che viene sarà una
situazione politica e sociale molto difficile, e al tempo stesso densa di profonde contraddizioni e potenzialità che
dobbiamo cercare di orientare verso la costruzione di un discorso che non sia solo anti capitalistico, ma che sia
soprattutto oltre capitalistico.
Del resto, non è stato proprio nella devastazione prodotta dal primo conflitto mondiale, con le sue tragiche
conseguenze sociali ed economiche, che sono maturate dialetticamente le forze che hanno permesso l’esplosione
dell’Ottobre, il terremoto che ha mobilitato centinaia di milioni di persone nel cambiamento rivoluzionario della
propria vita?
tante, troppe parole. da i miei trascorsi cattolici mi è venuta in mente una canzone che ben si adatta:
RispondiEliminaTante parole per non parlar d’amore, tanta cultura per non saper amare.
Sai tante cose ma non cos’è l’amore; il tuo discorso non m’ha toccato il cuore.
Bastava che dicessi: «Ti voglio tanto bene». Bastava un tuo sorriso, un cenno della mano.
Per te l’amore è un gioco di parole; parole nuove per non parlar d’amore.
Sai tante cose, ma non cos’è l’amore; troppa cultura ti ha inaridito il cuore.
Bastava che dicessi: «Ti voglio tanto bene». Bastava un tuo sorriso, un cenno della mano.
Marcello Giombini (1928-2003)
"...in principio era il verbo...no, il sesso."
EliminaA. Gramsci
Dunque, non è mai stato ignoto che il libero mercato arricchisce pochi, impoverisce molti e ha bisogno dell’aiuto
RispondiEliminadello Stato per non fallire e per riprodurre la sua logica. Perché allora, dal nuovo protagonismo politico ed
economico dello Stato derivante dalla pandemia di Covid-19, gli anti-neo-liberisti deducono la morte del neoliberismo?
Forse perché pensano che neo-liberismo e Stato siano antitetici. Ma se lo pensano, pensano male.
“il neo-liberismo non sostiene più, infatti, che le spese statali debbano essere limitate ai soli settori della difesa,
della giustizia e dell'ordine pubblico ma, in contrapposizione dialettica con i fautori del Welfare State, ritiene che
lo Stato debba intervenire solo nei casi di evidente fallimento del mercato” [7].
Caro Roberto, adesso ho capito perché ti fai chiamare Gasparazzo.
Non sono d'accordo. Neo liberismo e Stato non sono collusi per principio. In uno Stato democratico, possono esserlo neo liberismo e governo (in assenza di una sinistra adeguata come è accaduto negli ultimi anni nel Nostro Paese). Sicuramente lo sono il neo liberismo e lo statalismo, ma è proprio su questo conflitto che La domanda giusta richiama l'attenzione, per far uscire entrambe le posizioni da quelle ideologie che li hanno generati, affermando tra l'altro che entrambi, nelle loro vecchie formulazioni, non sono più in grado di leggere la realtrà attuale. non per nulla parlavamo di "anarchia feudale finanziaria" (non di neo liberismo) e di uno statalismo sovietico crollato miseramente.
In generale sono abbastanza d'accordo e condivido le tue osservazioni.
RispondiEliminaAvremo modo di approfondire l'argomento a voce perché così mi rimane complicato affrontare il tema.
L'unica cosa che non ho capito quale è la relazione che trovi tra il documento e il "nickname" Gasparazzo - spiegami.
Non sapevo che Gasparazzo, crescendo, era diventato un'icona del movimento operaio, sponsorizzato da Lotta Continua.
RispondiEliminaNel mio immaginario era un brigante meridionale , anarchico, ostile non solo alle élite padronali del meridione, ma anche allo Stato borghese arrivato con i piemontesi.
La relazione nasceva dall'accostamento tra neo liberismo e Stato, senza considerare che lo stato democratico fondato sulla Costituzione è un'altra cosa.